In questa intervista esclusiva al neopresidente Alessandro Benetton, le strategie e i dettagli del rilancio di uno dei gruppi storici della moda italiana, presente con 6.500 negozi in 120 Paesi con i suoi marchi United Colors of Benetton, Sisley e Playlife. Dopo il delisting, la parola d’ordine è sperimentare e accelerare in nuovi mercati, ma sempre sul solco del DNA dell’azienda.
La prima impressione che si ha entrando a Villa Minelli, la sede storica del Gruppo Benetton a Ponzano Veneto, è di un’oasi di quiete fuori dal caos, immersa nel verde e sospesa tra storia e modernità. Qui, nel suo studio, tra affreschi del XVI secolo e oggetti di design italiano contemporaneo, abbiamo incontrato Alessandro Benetton, fresco Presidente dell’azienda fondata dal padre Luciano e i suoi fratelli, incaricato di portarne avanti il nuovo corso nel dopo Piazza Affari. Alessandro Benetton entra sorridente, ci racconta di essere appena stato al meeting dell’Advisory Committee della Robert Bosch Internationale Beteiligungen di Zurigo, un organismo di consulenza della holding svizzera per le attività estere del Gruppo Bosch, di cui è l’unico italiano invitato a farne parte. In questo “salotto economico internazionale”, con personaggi del calibro di Kissinger e Hermann Scholl, ha discusso dei mercati globali. “In Italia c’è poca consapevolezza dell’ambiente circostante che è in continuo mutamento, mancano linee guida, risoluzioni efficaci da intraprendere”, afferma. “L’equilibrio economico dell’Europa è instabile e se non ci dovesse essere più l’euro crollerà, la Germania non starà certo a guardare. La Cina cresce, ma deve gestire lo sviluppo e i suoi problemi sociali, la popolazione dalle campagne vuole andare nelle città e il governo cerca di accoglierle. Negli Stati Uniti c’è una forte disoccupazione, ma sono ripartiti e credo che avranno successo, grazie alla loro innata capacità di reinventarsi. Una volta Kissinger mi ha detto che una delle grandi dicotomie del futuro sarà proprio questa: la cultura americana è di tipo inclusivo, quella cinese di tipo esclusivo. L’americano vorrebbe che tutti vivessero come lui, il cinese è fiero della propria diversità. Non è né più né meno egoista, è un approccio diverso alla collaborazione internazionale”. E l’India, l’America Latina? “L’India cresce ma ha a sua volta problemi sociali rilevanti, il Brasile inizia a rallentare un po’, è un’economia basata sulle risorse primarie interne ed è fortemente protezionistico. Nel resto del Sud America ci sono zone più o meno promettenti. Ad esempio per noi lo sono il Cile, il Perù e la Colombia, dove sono stato da poco per incontrare il Presidente e stringere una collaborazione”.
Il suo percorso personale e professionale l’ha visto impegnato attivamente davvero su parecchi fronti. Ma quali aspetti pensa abbiano condotto la sua famiglia a nominarla Presidente del gruppo?
Prima di tutto la mia scelta a 25 anni di fare l’imprenditore in un settore, quello del private equity, che nel 1992 era ancora sperimentale in Europa e anche un mestiere nuovo nella mia famiglia, ma mi lasciarono libero di agire senza paura. Il concetto di 21 Investimenti era unire la piccola media impresa e un socio finanziario per farla crescere. Oggi la società gestisce un miliardo e mezzo di euro di investimenti in aziende di tutta Europa ed è una storia di successo.
Oggi però è un’altra storia, come ci si sente al timone di un gruppo di questa dimensione e che porta il suo nome?
In realtà ci si sente come prima, a condizionarmi è più che altro l’ambiente esterno. Pensavamo di avere anni per poter sviluppare una serie di progetti per trovare nuova energia e valorizzare le radici del gruppo, invece la congiuntura ci ha obbligato ad accelerare. Poi, presidente, vicepresidente, amministratore delegato… non importa la carica, ma che tutti si sentano coinvolti in questa nuova direzione progettuale.
Intendeva questo quando ha dichiarato che l’addio a Piazza Affari vi darà modo di accelerare il rilancio?
Sì e mi spiego meglio. Quando nel 1986 la Benetton si è quotata aveva un modello di business funzionante e ben delineato e la Borsa è stato il meccanismo di disciplina che le ha permesso di crescere ulteriormente. Benetton oggi è invece in una fase che richiede molta snellezza, deve poter fare sperimentazione, perciò era il momento giusto per uscire da Piazza Affari.
Cosa pensa della finanza oggi?
Il mondo della finanza vive una stagione un po’ particolare. Per un periodo si è venduto un prodotto che non era vendibile, ovvero la certezza degli investimenti, che, come si è visto da Madoff e Lehmann Brothers in poi, nessuno in realtà è in grado di garantire.
Quali sono le aree strategiche su cui pensa di intervenire per il rilancio del gruppo?
Io penso che bisogna sempre partire dai propri punti di forza. E fortunatamente, Benetton ne ha molti, come la competenza nella maglieria, l’originalità nella comunicazione, la ricerca e la cura del dettaglio, il buon gusto e il rispetto dell’ambiente, tutti fattori che fanno parte del nostro Dna. Tutto ciò va però aggiornato e reinterpretato alla luce di un mondo che va a ben altra velocità rispetto al passato.
Il 2011 è stato un anno difficile per tutti. Quali sono state le aree geografiche in cui i marchi del gruppo hanno conosciuto maggiore sviluppo?
Noi dipendiamo molto dall’Italia e dalla Spagna, due mercati in difficoltà, ma che potrebbero anche fornirci lo stimolo per migliorarci e dove stiamo accelerando con nuove aperture con un sistema di vendite aggiornato. Poi Benetton è presente in 120 Paesi e si presenteranno sicuramente delle opportunità, alcune delle quali si sono già concretizzate. Siamo cresciuti a doppia cifra in Messico, in India e in Russia, e punteremo anche sulla Turchia e sugli Stati Uniti, dove abbiamo affidato a un manager specialista, Ari Hoffmann, il rilancio del marchio, che negli States aveva conosciuto un grandissimo successo negli anni ’80.
In alcune zone avete un gap verso i concorrenti, come pensate di recuperarlo?
Ogni azienda ha il suo Dna. Rincorrere chi nasce con business model diversi non ha senso, meglio pensare ai propri punti di forza e a come modificare il modo di lavorare secondo i propri valori. I nostri punti di forza devono essere la vicinanza al consumatore finale, essere più concentrati sul punto vendita e sulla shopping experience. Dobbiamo riuscire a far percepire al consumatore che cosa siamo e cosa ci rende unici.
E che cos’è oggi Benetton?
Un prodotto di qualità a un prezzo democratico. Non un prodotto usa e getta, né, come dico spesso, un prodotto che se lo tiri fuori dal cassetto dopo un anno, ti vergogni di averlo comprato. Non siamo un marchio di distribuzione, ma un marchio di prodotto.
Dell’Italia cosa ci può dire?
In quest’ultimo anno avete fatto delle scelte coraggiose aprendo negozi nuovi anche in centri più piccoli come Treviso, Trieste, …Questi punti vendita ci hanno dato grandi soddisfazioni, anche grazie ai negozianti nostri partner che hanno sul proprio territorio una clientela di riferimento. Sono un’occasione per far vedere ancor meglio la qualità dei nostri prodotti.
Nella nuova Benetton che peso avranno i partner rispetto ai negozi diretti?
Nel mercato c’è chi si aspetta dei cambiamenti su questo fronte…I rapporti di partnership, che abbiamo da sempre, con un sistema di agenti e di negozianti locali continueranno ad essere fondamentali. Certo dovranno essere migliorati ma rimangono centrali.
Quindi avanti nel segno della continuità?
Sì, con questo delisting, abbiamo voluto riaffermare l’importanza dei nostri negozianti partner nel nostro gruppo e far capire che la loro partita è anche la nostra. Ci sono momenti difficili in cui i mercati aiutano di meno, ma uno dei vantaggi di un’organizzazione come la nostra, composta da una famiglia, da manager, ma anche di tanti piccoli imprenditori che a loro volta hanno delle famiglie, è di poter avere una visione a lungo termine. Bisogna impegnarsi al massimo insieme, ma alla fine insieme ce la faremo.
Sul fronte del retail diretto, avete avviato da qualche anno un progetto di rinnovamento dei negozi, a che punto siete?
Dopo i flagship store di Milano, Londra, Parigi, Barcellona, ne abbiamo in cantiere diversi altri come Roma e Verona, che saranno tra i più importanti nel panorama italiano, e stiamo studiando con alcuni architetti famosi l’impostazione emozionale del punto vendita. Negli ultimi due anni abbiamo accelerato molto in questo rinnovamento, e nei mesi a venire, manterremo questo ritmo.
Un anno fa avete scelto You Nguyen alla direzione creativa di United Colors of Benetton, che lavoro sta facendo sul marchio?
La sua missione è di valorizzare e attualizzare le nostre competenze storiche. Ad esempio, nella maglieria da anni utilizziamo delle innovazioni tecnologiche e realizziamo prodotti nuovi, come il recente progetto Pin-Up, la maglieria studiata per esaltare le forme, che da due stagioni sta ottenendo grande successo. Ma possiamo e dobbiamo migliorare molto nel dimostrarlo al consumatore finale. Nell’ufficio stile stanno lavorando sul design, su tagli molto asciutti, colori, geometrie e stampe, insomma sulla nuova visione della moda del brand, restando in un ambito di consumo accessibile.
Il fatto di essere italiani è ancora un vantaggio competitivo?
Da questo punto di vista vado un po’ controcorrente. Nella storia l’etichetta made in Italy sicuramente ci ha aiutati, ma è arrivato il momento di ricodificarla. In Italia c’è il buon gusto, il senso del bello e ci sono abilità nel design, nella progettazione. Non dobbiamo lasciare che tutto ciò venga disperso in un mondo globalizzato solo perché c’è un’etichetta che dice che un atto meccanico viene fatto da qualche altra parte. Io dico: ripensiamo il made in Italy, qualcosa che porti oltre un concetto che appartiene al passato. L’etichetta potrebbe essere “concepito in Italia”, “disegnato in Italia”,…Benetton rientra in questa categoria, siamo al 100% italiani.
Negli anni ‘80 e ‘90 le campagne di Benetton hanno fatto scuola. Che stile avrà la comunicazione della nuova Benetton?
Per quanto riguarda le campagne di prodotto, continuiamo a lavorare in linea con i principi guida dell’intero processo di rinnovamento, ovvero riaffermare la bellezza e le qualità del nostro prodotto. Poi sicuramente porteremo avanti lo storico filone della comunicazione istituzionale. Vogliamo parlare al mondo con un linguaggio tutto nostro, e in questo ci assiste Fabrica, il nostro centro di ricerca sulla comunicazione: 50 ragazzi da tutto il mondo che a rotazione ci aiutano a individuare i temi che riguardano i giovani e il futuro. Così è avvenuto con l’ultima campagna UnHate, che ha grazie anche alle nuove tecnologie e il web ha toccato 500 milioni di persone, e l’80% ha dato feedback positivi.
Negli ultimi tempi avete puntato maggiormente sul web, corretto?
Sì, internet non potrà che essere dominante in tutte le aziende del futuro. Fa parte delle nostre vite ed è un elemento di disintermediazione che ci consente di essere più vicini ai consumatori – soprattutto ai più giovani, a cui la nuova Benetton si rivolgerà con sempre maggiore attenzione – e avere feedback diretti. In quest’ambito noi siamo partiti un po’ tardi, ma stiamo velocemente recuperando terreno grazie alla forza di un marchio molto conosciuto. Un esempio è il grande successo che ha avuto nel 2010 It’s my time, il casting globale online di reclutamento dei nuovi modelli che ha visto oltre 65mila partecipanti e 4 milioni di visite sul sito.
PLAYLIFE, IL MULTIBRAND EMOZIONALE
Far sentire i consumatori “a casa propria” e trasformare lo shopping in un’esperienza divertente. Da queste idee è partito il rinnovamento di Playlife, lanciato da Alessandro Benetton e cominciato a inizio anno a Treviso con l’apertura del primo nuovo concept store, a cui hanno fatto seguito quelli di Bologna, Milano, Torino e Trieste. Playlife, che conta oggi 130 punti vendita in Europa, ha assunto la veste di insegna multibrand in cui sono in vendita sia collezioni di abbigliamento che di accessori, gadget e prodotti con in comune il valore dell’autenticità. Tra questi lo stesso Playlife, Jean’s West, brand denim italiano degli anni ’70 di proprietà del gruppo, ma anche l’outdoor urbano di Killer Loop, l’homewear femminile di Anthology of Cotton, o ancora, le cinture in gomma riciclata Heidi Ritsch, le biciclette pieghevoli Dahon, le macchine fotografiche Lomography e Polaroid. Il nuovo store concept è volto a creare un ambiente caldo, con elementi come il letto al centro della stanza, tappeti etnici, la cucina piastrellata e il legno non trattato. “Playlife è un progetto ancora sperimentale – spiega il presidente di Benetton Group – ma che fin dai primi passi ci ha dato segnali interessanti e incoraggianti dal punto di vista economico. Fondamentale è il concetto della contaminazione, l’idea di unire i diversi marchi in un contenitore, ovvero il punto vendita emozionale Playlife”.